A differenza degli altri comuni della Riviera dove l’Ottocento segnò un periodo di incredibile turismo e valorizzazione delle opere, Pigna dovette attendere qualche decennio prima di veder qualificare le proprie opere per il loro reale pregio. Ma con l’inizio del Novecento, anche l’alta val Nervia iniziò a farsi conoscere. Dopo il sontuoso polittico di Giovanni Canavesio, l’opera più preziosa conservata a Pigna è il rosone marmoreo, completo della vetrata antica, realizzato da Giorgio di Lancia e Giovanni da Bissone (le cui firme sono poste in tre blocchi sotto il rosone, proprio nella parte centrale e di miglior “pubblicità” della facciata della chiesa), datato 1450 e incastonato sul grigio prospetto della chiesa di San Michele. Fu Girolamo Rossi l’artefice della scoperta storico-artistica del rosone. Rossi pubblicò nel 1862 l’iscrizione che l’accompagna dandone una lettura imprecisa, per cui Giorgio di Lancia (architetto della chiesa) divenne, erroneamente, Giorgio della Motta, e rimase tale sino alla revisione del Lamboglia. L’opera è certo che venne realizzata, insieme a l’intera facciata della chiesa, nel 1450 da due illustri antelami genovesi. A seguito dei danneggiamenti bellici, il rosone venne ristrutturato nel secondo dopoguerra. Il Lamboglia studia anche la struttura della chiesa di San Michela e distingue con chiarezza la fase costruttiva databile al 1450, corrispondente alla facciata e alla porzione occidentale dell’edificio con le prime tre campate, e il completamento tardocinquecentesco (ulteriori tre campate, area presbiteriale e cappella settentrionale) compreso tra 1540 e il 1570 (come iscritto sul fregio esterno della navatella meridionale). Così il Lamboglia attribuisce a Giovanni da Bissone la realizzazione del rosone, la cui cornice in marmo è contraddistinta da motivi di scultura di tradizione medievale, ma trattati ormai con stile quasi rinascimentale; nella vetrata, gli Apostoli sarebbero fiancheggiati da motivi della mistica e del simbolismo medievale, ossia i segni dello zodiaco. La natura di ibrido tra gotico e rinascimentale è descritta anche da Teofilo Ossian De Negri, il quale mira a contestualizzare il cantiere in termini di geografia artistica, proponendo che gli aggiornati scultori lombardi siano giunti in Liguria non da Genova, bensì attraverso i valichi del Piemonte meridionale. Si può parlare in Liguria di un Quattrocento come secolo del marmo, dove il rosone rappresenta uno degli esempi più singolari; sia il Lamboglia che il de Negri tendono a definire queste opere marmoree, decorate secondo la più fantasiosa tradizione gotica, ma rielaborate con perizia tutta rinascimentale. Ad una conclamata fantasia del lapicida, insomma, non sembra aver fatto seguito un’analoga fantasia interpretativa: la questione della facciata di Piagna si è risolta grazie alla presenza della data e di una doppia firma entrambi attendibili. Da osservare che non tutti i vetri del rosone sembrano autentici, cosa che notò lo stesso Lamboglia criticando l’opera di ricompensazione fatta a Firenze nel primo dopoguerra. È inoltre difficile riuscire a studiarli con precisione sia per la loro alta posizione, sia per la presenza di uno schermo protettivo dal lato della cantoria (parte interna alta della chiesa riservata ai cantanti). Essendo comunque la vetrata riconoscibile come quattrocentesca, resta da chiarire se vada ritenuta più o meno contestuale al rosone, oppure se non sia il frutto di un intervento successivo, magari alla fine del secolo. La prima ipotesi è avvalorata da Giuliana Algeri, che collega i vetri a maestranze lombarde operose intorno al ’50 e quindi culturalmente allineate con gli scultori; della seconda ipotesi è più propenso Massimo Bartoletti, che indica la vetrata come opera di Giovanni Canavesio, vista la somiglianza con gli Apostoli dipinti sulla predella inferiore del polittico di San Michele nella stessa chiesa, datato 1500. Resta per un’ipotesi di mezzo, che vede il Canavesio ispirato a modelli esistenti nella chiesa, imitando sulla tavola le immagini dei vetri. Tornando al rosone, esso si apre al centro della facciata, sopra le due monofore centinate (curve in legno) e tende ad occupare buona parte della zona superiore, movimentando così il teso paramento di pietra nera. Il rosone scava la superficie della pietra trasformandola con i suoi vetri e abbina inoltre elementi lapidei in ardesia (e quindi omogenei al resto della facciata) ad altri in marmo bianco, che accentuano lo stacco dalla struttura e ne valorizzano la sua funzione focale. Perno della composizione è un clipeo (scudo, immagine in un oggetto rotondo) dentato che ospita l’Agnus Dei (agnello Divino) e un minuscolo stemma sabaudo, quasi invisibile. Dagli ingranaggi della ruota nascono dodici colonne marmoree sormontate da capitelli à crochets che definiscono altrettanti spicchi in pietra nera. Il tutto è circondato da una cornice circolare in marmo, dove si concentra l’apparato scultoreo. Sono diciannove gli apparati curvilinei che lo compongono: tutti comprendono due motivi scolpiti, tranne uno a sinistra che ne contiene tre; si tratta di temi ornamentali fitomorfi, come rosette e fioroni, fatta eccezione per la parte superiore dove vi sono interessanti ed enigmatiche presenze figurative. Da sinistra a destra: un volto solare; un motivo a fogliami; una figura rannicchiata, di schiena e vestita solo di un paio di corte branche, che impugna due arboscelli; una seconda figura, vestita, chinata con un albero alle sue spalle; una mano divina benedicente sovrapposta a una croce; un motivo fitomorfo, a suggerire ancora la croce; una testa barbata, avvolta da un turbante con i lembi ricadenti; un grifone; un motivo fitomorfo; una testa angelica con ali spiegate; un motivo fitomorfo von busto di aquila ed uno con testa leonina. La cosa particolare di questo rosone è che tra la cornice esterna della ruota e la sua parte interna vi è una netta continuità, laddove molti altri presentano una diversa sequenza di ghiere concentriche. La stessa alternanza cromatica bianco-grigia viene sfruttata per segnare la compenetrazione di scultura e architettura, e questo rapporto si trova anche in corrispondenza del portale con l’archivolto della lunetta definito da conci alternati. Giovanni da Bissone fu colui che scolpì effettivamente il rosone, ma l’equivalenza delle firme porta a pensare che vi sia stata una stretta collaborazione con l’architetto Giorgio di Lancia, come una sorta di lavoro di gruppo dove l’architettura non può fare a meno della scultura e viceversa. La storia dei Lancia nasce a Taggia negli anni Quaranta, dove sono detti generalmente milanesi e si impongono nei decenni successivi come dignitosi professionisti dell’intaglio, penalizzati nella decorazione figurata. le loro opere sono: il portale di Santa Maria del Canneto a Taggia, il portale di casa Asdente, fontana di piazza Confraire a Taggia, l’oculo della chiesa di Sant’Antonio Abate a Dolceacqua (Bartolomeo Lancia) oggi però perduto.
Noemi D'Amore
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