sabato 18 maggio 2013

La Rivoluzione del 1753 a Sanremo


Sin dai tempi più remoti, i ponentini non sono mai stati un popolo di facile conquista. Lo si è visto, ad esempio, con la resistenza ai romani da parte dei ventimigliesi. Forse perchè raccogliere del bene da questa terra che è la Riviera dei Fiori, ha sempre significato lavorare duramente, dedicare la propria vita a mutare l'aspetto delle colline per poter coltivare fasce di uliveti. Ed è logico pensare alla rabbia di un uomo che vede portarsi via il frutto di così tanto sudore. Dalla costruzione di strade, che poi erano semplici mulattiere, per poter raggiungere i vari borghi dell'entroterra, alla lotta contro la brezza marina per proteggere campi di fiori e agrumeti, ai ponentini non è mai stato regalato nulla, ma per fortuna hanno da sempre posseduto il dono più importante: la tenacia. 
E la Rivoluzione sanremese del 1753 è proprio la massima rappresentazione di questo dono, di questa forza interiore.
Durante il dominio della Repubblica di Genova si poteva avvertire nell'aria l'ostilità dei sanremesi. Più Genova calcava la mano nelle pretese, convinta della fedeltà forzata, tanto più i sanremesi si preparavano ad un'azione che troncasse una volta per tutte i rapporti di sudditanza. Nel 1752 il commissario generale per la Liguria occidentale, Giuseppe Doria, residente a Sanremo, avvertiva il governo che gli abitanti della città lo odiavano, compravano armi di nascosto e tenevano convegni segreti. Alcuni di questi convegni erano tenuti nella tabaccheria di  G.B. Rubino, situata in via Palazzo presso la Casa dei conti di Roverizio. Durante queste riunioni, i cospiratori cercavano l'appoggio non solo dei concittadini, ma anche da parte di amici lontani, a Torino, siccome il Re di Sardegna (casa Savoia) era la scelta "meno odiata" per un nuovo Governo di appartenenza. 
Alla fine di maggio ed ai primi di Giugno del 1753 le voci si fecero più intense e più precise: si parlò chiaramente di prossima ribellione armata. Ma la Repubblica di Genova, fiera e potente, non volle credere a tali dicerie, come neppure il Doria. Ormai i sanremesi attendevano solo un buon pretesto per iniziare la loro rivolta in nome della libertà.
L'occasione gli fu servita su di un piatto d'argento, quando la Colla (Coldirodi), lamentando il malgoverno sanremese, chiese ed ottenne dal Governo di Genova, la separazione dei confini da Sanremo. All'arrivo, il 6 giugno 1753, del cartografo colonnello Matteo Vinzoni, mandato dalla Repubblica per procedere con la separazione, il malcontento tra gli abitanti della città si fece incontenibile. Il Vinzoni, ignaro di tanta burrasca, si presentò al Consiglio, chiedendo due deputati che lo assistessero nel suo lavoro. Ma il Consiglio, non solo non ubbidì, anzi inviò due delegati a invitare il Doria a rimandare a Genova il cartografo.
Il Doria allora capì la gravità della situazione, comprese finalmente che Sanremo non avrebbe mai accettato il distaccamento della sua frazione e che era più che motivata a vendicarsi delle pretese vessazioni subite da Genova. Peccato, per lui, che lo capì troppo tardi.
Il suono cupo e fragoroso del campanone di S.Siro per ben due ore chiamò a raccolta la popolazione, incitando gli animi, con frasi dettate dalla più furiosa ribellione. Fu una donna a "martellare" con tanto vigore la campana, Brigida Moreno, e a tale richiamo il popolo si radunò nelle vie e nelle piazze. Alle 22, sotto l'archivolto del Palazzo del Commissario Genovese sito in Piazza Nota, cominciarono i primi atti di violenza.
Il tenente Rossi, comandante del picchetto corso, fu invitato a deporre le armi. Al suo rifiuto la lotta s'inasprì ed i suoi soldati furono costretti a rinchiudersi nel corpo di guardia. Dalla folla partirono diversi colpi d'arma da fuoco, così che i genovesi dovettero ritirarsi al piano superiore, nelle stanze più riparate. Il Doria, rendendosi conto che ormai sarebbe stato inutile comportarsi da "eroe" sacrificandosi al popolo sanremese, si dichiarò prigioniero insieme alla sua famiglia ed i suoi dipendenti: il col. Vinzoni, l'impiegato Cavalloni, il vicario entrante Giacomo Gibboni, quello uscente Tommaso Maccario. I soldati allora consegnarono le armi e, usciti dal Palazzo, furono rinchiusi nell'Oratorio dei sette Dolori. Tutta la città era in preda alla rivoluzione: le donne correvano e urlavano "Viva San Romolo", incitavano gli uomini ed aumentavano la confusione. Vennero chiuse le porte della città e abbattute le insegne genovesi. 
La mattina seguente, il 7 giugno, gli animi sanremesi erano carichi di orgoglio ed eccitamento per la situazione di indipendenza che stavano vivendo, ma adesso si doveva trovare il modo per rendere tale indipendenza da Genova definitiva. Nel mentre che si cercavano armi, cosa non facile siccome i paesi vicini erano ancora sudditi di Genova e quindi timorosi di possibili ritorsioni, tutta la popolazione, volente o nolente, dovette partecipare all'assemblea organizzata nell'Oratorio di S.Germano per assistere al maggior atto politico che si potesse compiere: proclamare decaduto il Governo di genovese e chiedere l'annessione al Regno di Sardegna, attratti dalle promesse di intensi traffici col Piemonte e facili ricchezze. In realtà il Piemonte cercava ansiosamente sbocchi sul mare, siccome quello di Oneglia e di Loano erano insufficienti e troppo isolati. Era quindi fondamentale lo scalo marittimo di Sanremo, vicino alle strade gia sabaude di Perinaldo, Pigna, Carpasio ect. Al termine dell'assemblea, si cercò una delegazione che consegnasse a Sua Maestà Sarda il documento plebiscitario. Questa, composta da Lorenzo Anselmo, il notaio Tommaso Bracco, Nicolò Moraldi e Antonio Palmaro, partì alle due di notte in direzione di Torino, ma quando arrivarono, il giorno 9, il re ed i suoi ministri, timorosi d'immediate complicazioni, preferirono non accoglierli e fingere sorpresa e malumore.
Intanto la notizia dei rivoltosi sanremesi dilagò nei paesi vicini, tanto che i consoli di Bordighera mandarono a Genova l'atto della loro solidarietà, aggiungendo, un po' goffamente "d'esser pronti a sacrificare mille vite se tante ne havessimo" per Genova. sanremo, diventata ormai la "pecorella nera" della Repubblica di Genova, continuava a mandare i suoi paesani alla ricerca di armi e munizioni anche in territori più lontani, come a Nizza, ma anche lì furono respinti perche i francesi (all'epoca "piemontesi") preferivano attendere il consenso da Torino. 
Il 9 Giugno, da Genova, si cercavano soluzioni drastiche per porre rimedio alla scomoda situazione, prima che potesse diventare una vera spina nel fianco, come sarebbe successo se il Regno di Sardegna avesse dato da subito il suo supporto. Il 12 giugno la Repubblica genovese nominava quindi capo della spedizione il generale Agostino Pinelli, uomo audace, scaltro, già esperto di guerra ed appartenete ad una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia di Genova. Insomma un vero "pezzo da novanta" come direbbero in Sicilia. 
Per prima cosa egli avrebbe dovuto vedere se i Collantini resistevano, siccome i sanremesi avevano iniziato a prendersela con loro, e quindi portare loro soccorso. In caso contrario, sbarcare a Sanremo ed intimare, entro poche ore, la restituzione del Commissario e degli altri progionieri. Bisogna precisare che il Minor Consiglio genovese non aveva intenzione di usare "la forza" o "saccheggiare" la città dei fiori, anzo voleva concedere a quel popolo di essere puniti a tenor delle Leggi. Ma il  Pinelli, come si è detto, era un uomo scaltro e forse anche un po' "pavone". Arrivato quindi in serata al porto di Sanremo col suo convoglio, composto anche da tre galee e un bastimento carico di bombe, mandò  a terra una barca munita di bandiera bianca, con un sergente ed un tamburino a recare al popolo di sanremo il messaggio che entro due ore i prigionieri sarebbero dovuti essere liberati. I sanremesi, seppur non esperti alle armi, trascinati ancora dall'energica protesta, rimandarono indietro il tamburino indicando impossibile da farsi la richiesta genovese. Il grave errore dei sanremesi, vedendo arrivare la "grande Repubblica" ai loro piedi con una bandiera bianca, fu quello di pensare che la lotta fosse finita, mentre in verità per il Pinelli era appena iniziata.
Il generale, adirato, ordinò di cominciare il fuoco sulla città, ma, per fortuna, le difficoltà tecniche nel calibrare il tiro delle bombe insieme all'oscurità della sera, ritardarono il bombardamento al mattino seguente. Insieme all'attacco dal mare, il Pinelli fece dirigere due gruppi di soldati ai lati opposti di Sanremo per farli ricongiungere al convento dei Gesuiti (attuale chiesa di Santo Stefano) e chiudere quindi in una morsa la città. La scarsa, se non nulla, esperienza militare del popolo sanremese, portò gli abitanti a schierarsi con le poche armi su un solo fronte (san Rocco, porta cappuccina), lasciando completamente scoperta la zona della Madonna della Costa, dalla quale sopraggiunse il secondo gruppo di soldati genovesi che riuscì a penetrare nella città praticamente indisturbato. 
Presi con l'acqua alla gola, ancora increduli su come si fosse ribaltata la situazione senza neppur aver combattuto, i Sanremesi decisero non una resa, ma un abboccamento col Pinelli, confidando in una sua generosità in caso fosse terminata la Rivoluzione. Decisero quindi di liberare il Doria e la sua famiglia ed accompagnarlo al campo militare del pinelli, situato in zona "Le Rive". Il generale capì così che la baldanza dei sanremesi stava per crollare e manifestò quello che realmente covava in cuore: mise in chiaro che tale liberazione non avrebbe agevolato le trattative con la Repubblica. I sanremesi chiesero allora un giorno di tregua, indecisi sul da farsi. La sera stessa proposero al Pinelli di venire a patti, ma egli rifiutò e rispose che avrebbe ripreso le ostilità sino all'ultimo sterminio. Dopo averli volutamente spaventati, il generale mostrò un'ancora di salvezza ai rivoltosi: consegnare le armi per ricevere il perdono. Con la sola e vaga promessa verbale del Pinelli, i sanremesi consegnarono le armi e la città e, con un altro abile stratagemma del generale che sostituì successivamente la parola "servitori" con "sudditi", tutti i sanremesi sottoscrissero una umiliante petizione di clemenza. I Consiglieri, che si erano rifiutati di obbedire agli ordini del Vinzone, dovettero pagare un totale di 100.000 L. (somma eccezionale che lascia comunque a intendere il prestigio economico di Sanremo all'epoca). Inoltre, il Pinelli ed il Doria fecero confiscare tutti i beni comunali, abolire i privilegi e gli statuti e costruire una fortezza (forte di Santa Tecla) a perpetua minaccia. Vennero fatti togliere inoltre tutti i collari ai preti, per punire poi i più colpevoli, siccome anche i gesuiti si erano prestati alla rivolta dei sanremesi.
Se la situazione con la Repubblica di Genova poteva sembrare insostenibile, tanto da spingere i cittadini ad una Rivolta, gli stessi sanremesi la resero, con le proprie mani, ancora peggio!
E' proprio vero che:

"a fara a in zenéize i nu basta sète ebrei"
(a farla ad un genovese, non bastano sette ebrei, antico proverbio sanremasco) 

Scritto da Noemi D'Amore
Bibliografia: "la Rivoluzione del 1753 a Sanremo" di Nilo Calvini



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