giovedì 28 marzo 2013

Ceriana: 21 chiese per 21 santi


Il paese offre una visione di notevole effetto scenografico, con la grande cascata di case in pietra grigia che discende compatta dall'altura rocciosa, sino a raggiungere il sottostante torrente Armea. In alto, dall'acropoli, emerge la cuspide del campanile della chiesa di Sant'Andrea, mentre a sinistra compare la facciata barocca della parrocchiale con i suoi due campanili laterali. Tutto intorno è una distesa di ulivi.

Questo vasto borgo dell'entroterra sanremese, vanta probabili origini romane, come indica il nome originario "Coeliana", ossia "della famiglia dei Celti". Il paese inizia ad essere citato nei documenti nel 979 quando diviene proprietà dei conti di Ventimiglia. Successivamente passerà nelle mani del vescovo Corrado di Genova (1038), Oberto Doria e Giorgio De mari (1297) e sotto alla Repubblica di Genova (1359), che lo gravò di pesanti tasse. Gli abitanti di Ceriana si ribellarono più volte alle imposizioni fiscali, fino all'ultima insurrezione popolare che nel 1814 provocò la distruzione dell'archivio comunale. Nel novembre del 2000 forse ricorderete che il paese è stato colpito da un vasto movimento franoso a sud dell'abitato, con due vittime e ripetuti sgomberi precauzionali della popolazione. Ciò nonostante, Ceriana e uno dei borghi medievali della Liguria di ponente maggiormente abitato!

Parrocchiale Ss. Pietro e Paolo
Da Corso Italia e tramite via Cassini, si raggiunge l'imponente chiesa, iniziata nel 1630 e completata nel 1768 in eleganti forme barocche da Domenico Belmonte. La pendenza del terreno obbligò ad aprire l'ingresso sul fianco destro dell'edificio, sostenuto da quattro piani di fondamenta; la facciata convessa con sei statue entro nicchie è affiancata da due campanili, che ne prolungano lo sviluppo verticale. Nell'interno ad aula unica si conservano alcune importanti opere d'arte: il polittico di San Pietra in cattedra (1526, autore ignoto), il trittico di Santa Caterina fra le Sante Apollonia e Maria Maddalena (1545, Francesco Brea), la statua lignea dipinta della Madonna col Bambino (1200, proviene dal Santuario della Madonna della Villa). Inoltre, accanto al grande altare, troviamo il curioso idrocronometro, invenzione del domenicano padre Embriaco da Ceriana che riproduce l'orologio ad acqua collocato sul Pincio a Roma.

Oratorio di Santa Marta
Di fronte alla parrocchiale troviamo l'oratorio di Santa Marta, in stile barocco, è sede della confraternita dei Verdi e presenta all'interno fastose decorazioni.


La chiesa di Sant'Andrea
Dalla piazza, proseguendo per via Raffaele Doria, tramite una serie di archivolti si giunge all'acropoli di Ceriana e da lì alla chiesa romanica di Sant'Andrea, le cui colonne in arenaria che separano le tre navate sarebbero le stesse del tempio romano di Apollo. Il massiccio campanile è in realtà una torre d'avvistamento. Nell'interno della chiesa, sede della confraternita dei Neri, è conservato il dipinto raffigurante Sant'Andrea del primo Cinquecento.

La chiesa di San Pietro
Seguendo una discesa a gradoni, e superato l'oratorio della Visitazione, si giunge all'antica porta della Pena, formata da un arco in pietra con caditoia e vicine feritoie. Da qui un suggestivo percorso attraversa il medievale ponticello di Santa Lucia e conduce nel fondovalle, dove troviamo il complesso formato dalla chiesa di San Pietro, l'oratorio di Santa Caterina (in foto) e il palazzo vescovile. L'architrave della chiesa di San Pietro, sorretto da esili colonne, è opera dei lapicidi di Cenova (Rezzo), mentre l'interno presenta capitelli dal gusto gotico. L'alto e snello campanile laterale in pietra poggia su fondamenta romaniche e risale al XV secolo. Differente, invece, quello del vicino oratorio di Santa Caterina che è moderno e contrasta con l'elegante facciata seicentesca barocca dell'edificio, sede della confraternita dei Rossi.
Da non trascurare, inoltre il vicino palazzo Roccasterone, residenza dei conti di Ceriana ed il santuario della Madonna della Villa; quest'ultimo è affrescato all'interno da Tommaso Carrega nel 1797.


Non c'è da stupirsi se a Ceriana, visto il notevole numero di chiese e confraternite, le festività religiose sono molto sentite dagli abitanti!
Proprio in questi giorni, in occasione della vicina Pasqua, il paese offre il meglio di se! La Domenica delle Palme segna l'inizio dei tradizionali riti della Settimana Santa, evento che segna il momento più alto e coinvolgente in termini di partecipazione per l’intera comunità del borgo.
Protagonisti della Settimana Santa sono infatti i riti e le tradizioni millenarie del paese: nel pomeriggio del Giovedì Santo in paese comincia a risuonare il cupo suono dei corni, lavorati a mano e intagliati nella corteccia di castagno secondo un'arte tramandata di padre in figlio. La sera si tiene la tradizionale Cena del Signore, e le Confraternite cantano i Miserere, gli Stabat Mater e le Laudi penitenziali davanti all'altare della Reposizione. 
Durante il Venerdì Santo le confraternite, vestite con l'abito tradizionale, marciano in processione lungo le vie del paese, eseguendo gli antichi canti penitenziali. I cori di Ceriana eseguono il loro repertorio religioso anche durante la Veglia e la Santa Messa Solenne di Pasqua. Tutto il paese rallegra la festa unendosi ai canti e, al di fuori dei momenti solenni, si preparano in piazza leccornie gastronomi come i frisciöi (frittelle) proposte in tre alternative: possono essere di fagioli e bietole, di baccalà oppure dolci, alle mele e rappresentano senza dubbio, assieme a un buon bicchiere di vino rosso, il nutrimento essenziale delle famiglie del paese, nei giorni della passione!
Insomma, in questi giorni Ceriana è un borgo da non perdersi! ;)


Noemi D'Amore

martedì 26 marzo 2013

Strade e strade!


Uno degli aspetti che principalmente mi affascina della Liguria, è il ritrovarsi ad "alte" quote dopo solo qualche curva in statale, ma restando sempre e comunque a contatto visivo col mare! Questa caratteristica è ben presente salendo lungo la strada dell'ex circuito di Ospedaletti. Dopo pochi kilometri, dall'Aurelia si sale sino ad avere proprio la percezione sferica dell'orizzonte, e dal giusto punto panoramico, il tramonto si perde nel mare e nel tempo!
Allo stesso tempo, questo aspetto affascinante tipico della Riviera, è sempre stato un tallone d'achille per gli scambi commerciali (e culturali) via terra, verso le limitrofe regioni. E forse è proprio questa la ragione per cui i liguri si sono sempre distinti come un popolo chiuso in se stesso..
Ma senza l'asfalto e la tecnologia moderna, come facevano i nostri avi a costruirsi una strada?
Prima della rivoluzione industriale e delle ferrovie, i mezzi di locomozione erano gli animali da carico. e l’esigenza principale era quella di trasportare le merci costituite specialmente da oggetti pregiati o comuni. Si sfruttarono così muli e cavalli. I muli, però, erano migliori, perché più adatti al nostro territorio. Infatti, potevano arrampicarsi su pendenze maggiori. Inoltre ve ne erano molti allevamenti e gli stessi potevano trasportare carichi piu pesanti (sino a 160 chilogrammi) rispetto ai cavalli. 
Persino i Romani, in Liguria, hanno seguito le cosiddette “piste” create dai Liguri, calcandone il tracciato anche con degli eserciti! 
Le mulattiere di montagna venivano pavimentate nei tratti inclinati con ciottoli piantati in uno strato sabbioso, bene incastrati fra di loro, e disponendo il loro lato più lungo in senso trasversale all’asse stradale, per frenare l’erosione da parte dell’acqua piovana e impedire agli animali ferrati di scivolare.
Il problema era quando la pendenza superava il trenta per cento: si usavano degli scalini ricavati nella roccia o cordoli di pietra, oppure si poteva fare un percorso a zig zag, senza creare dei veri e propri tornanti, ma anche senza allungare troppo il tracciato. 

Si pensi che un uomo puo portare sino a 90 chilogrammi e procedere alla stessa andatura degli animali! Ancora oggi si possono trovare le “pose” appoggiate al monte lungo i sentieri, ossia dei punti alla giusta altezza che permettevano agli uomini di adagiare il loro carico e riposarsi . 
Gli animali trasportavano le merci sul dorso, protetto da un basto con contenitori diversi, adatti a carichi differenti. Il baricentro dell’animale, in base al carico, non si spostava troppo, permettendo alla muscolatura delle sue zampe di lavorare bene. Quando un prodotto, come i blocchi di marmo, non era divisibile, veniva caricato su una slitta e trainato da un paio di buoi.
Tuttavia, i mezzi su ruota potevano essere trainati da equini o bovini con minore attrito rispetto alle slitte, ma su pendenze minori. 
Grande era la differenza tra un traino destinato al traporto delle persone e quello destinato alle merci! Nel trasporto di persone, già in età romana, si potevano usare vari tipi di carrozze. Dove la strada permetteva un passo piu veloce (strade pianeggianti con poca pendenza) vi era una cura migliore, con stazioni per il cambio degli animali e dei conduttori, per permettere una rapida percorrenza di ampie distanze. La necessità dell’Impero di possedere un canale di favore (cursus publicus) per le esigenze amministrative e di sicurezza garantiva l’esistenza di queste reti. In Liguria solo la via Julia Augusta è potuta entrare in questa rete. Tutte le altre strade romane della Liguria, come quelle dei valichi alpini, erano mulattiere. 
Il discorso cambia radicalmente per il trasporto delle merci, anche durante l’Impero. Un carro poteva portare circa 800 chilogrammi di merce e veniva munito di un numero necessario di muli o cavalli in base alla pendenza della strada. Le strade che occorrevano per i carri avevano caratteristiche diverse dalle mulattiere: non potevano superare il quindici per cento di pendenza, dovevano essere piu larghe e le curve dovevano avere un raggio di almeno cinque metri per permettere al carro di girare.

Oggi, c'è veramente da stupirsi nel vedere lo stato in cui versano le nostre strade! Se si pensa che tratti ciottolati, come Piazza Colombo a Sanremo, hanno resistito al transito di animali, carrozze, persone per secoli, vedere una via appena asfaltata che si riempie di "crateri" dopo le prime piogge stagionali, fa davvero riflettere e riempie l'animo di domande!
Ma se nella costruzione di reti stradali non abbiamo fatto grandi progressi, in una cosa abbiamo senz'altro fatto grandi passi: l'espansione culturale!
Oggi i prodotti della nostra terra sono conosciuti in tutto il mondo, la storia dei nostri borghi è oggetto di studi universitari statunitensi! 

Insomma, anche se materialmente non possiamo viaggiare facilmente, le emozioni della Liguria sono comunque arrivate nel cuore di tutti!

Noemi D'Amore

lunedì 25 marzo 2013

Crocifissi: la classificazione di un Simbolo


Ad una prima occhiata, i Crocifissi potrebbero sembrare tutti uguali, dal povero significato simbolico,  una "semplice" raffigurazione del Cristo sulla Croce. Nulla di più sbagliato! In realtà, sono stati fatti approfonditi studi sulla loro rappresententazione e sul loro significato. La presenza di un copioso numero di opere nella Liguria di Ponente, ha reso necessaria una particolare classificazione per agevolare gli studi dei pregiati Crocifissi conservati in Duomi e Santuari. Sino al 1995, questa classificazione, comprendeva tre grandi gruppi, con oguno un croficifisso di riferimento:
- il "Taggia", riferito al filiforme Crocifisso della chiesa dei Domenicani
- il "Ceriana", riferito al grande crocifisso d'altare conservato nella medesi,a città
- il "Santo Stefano", riferito al Santo Cristo venerato nell'oratorio di Santo Stefano al Mare.
Ma con l'aumentare dei restauri, le nuove acquisizioni e le segnalazioni di studiosi, si è preferito rinnovare la classificazione convertendola in cinque grandi raggruppamenti:
A - B - C - D -E (vedi foto sotto)



Il gruppo A

La distribuzione del gruppo A è concentrata nel medio ed estremo Ponente e radicata nel profondo entroterra e nell’Oltregiogo (regione storica tra Liguria e Piemonte). Questo crocifisso è smagrito e sintetico, il volume appiattito del torso si contrappone a quello della parte sottostante (dall’ombelico alle ginocchia), formando un “8” allungato. E’ una tipologia che privilegia normalmente figure di formato ridotto e, nonostante l’impressionante rappresentazione nel Crocifisso del San Domenico di Taggia, darà prova di una tenuta notevole, pervenendo addirittura in vista del Cinquecento.
L’affinamento e l’idealizzazione comuni a queste sculture, come il nodo laterale a occhiello e l’ansa a “u” del perizoma, le ciocche di capelli autentici applicate al cranio, presuppongono una soluzione di continuità nei primi anni del Quattrocento, e dunque un evento, o un complesso di circostanze, capaci di esercitare un’azione quasi traumatica sulle espressioni culturali. Il movimento penitenziale dei Bianchi (nato dalla visione di una signora biancovestita nell’antica regione francese del Delfinato) è stato sicuramente influenzate per questo stile.A Genova il movimento dei Bianchi si manifesta clamorosamente nel luglio del 1399 e da lì riparte in modo piu organizzato: si trasformerà in pellegrinaggio verso Roma, arricchendosi di eventi miracolosi. E’ logico pensare quindi che in questo clima di grande fervore devozionale, siano collocati i rigorosi e smagriti “cristetti” con l’ostinata distribuzione nei punti chiave della mappa del Ponente: da Pigna a Ventimiglia e da Taggia a Triora; da Rezzo a Pieve di Teco e a Porto Maurizio; e dalla piana d’Albenga a Toirano o nelle valli retrostanti, con due interessanti punte a Ceva e a Fossano. A Genova, all’arrivo dei Bianchi, si respira un’aria di crociata: la città ha concordato la propria sottomissione a Carlo VI di Francia, che accarezza l’idea di una ripresa in guerra contro i turchi, a sostegno del malfermo impero bizantino. Il re di Francia inviò Jean le Meingre (Boucicaut), governatore austero e di rigore morale. In quell’epoca si viveva lo scisma della chiesa, in quanto vi era un papa in Avignone e un altro a Roma ed il governatore, ovviamente, dava ordine di obbedire al papa francese. La repubblica marinara di Genova, però, preferì favorire Benedetto XIII, il papa romano. I crocifissi allungati e iperstilizzati di Taggia e Ventimiglia alludono quindi ad un linguaggio internazionale e una relativa permeabilità tra piani socioculturali alto e basso. 

Il gruppo B

Le anatomie sono indagate graficamente, una lunga piega segna costantemente la vita e il perizoma si allunga: le sue pieghe si fanno rigide e radiali, mentre il nodo all’occhiello sul fianco destro pende schiacciato, con minore evidenza; un braccio si flette piu dell’altro. Questo è il gruppo B. Questo stile lo troveremo con un’espansione piuttosto regolare lungo la costa e nell’immediato entroterra imperiese-albenganese, con due puntate a Genova e a Ventimiglia.


Il gruppo C
Elementi caratteristici di questo gruppo sono: la dilatazione del torace, i capelli scolpiti, resi in due grandi ciocche coniche rifinite a torciglione che cadono sul petto, e poi il panneggio del perizoma strutturato come una sovrapposizione frontale dei lembi, cui fanno da contrappunto due ricadute laterali, una per fianco e, infine, l’andamento delle vene a treccia sulle braccia e sulle gambe. Questo tipo di crocifissi li troviamo a Vallecrosia Alta, nell’oratorio dei Rossi a Taggia e nela parrocchiale di Zuccarello, quest’ultimo con la particolarità di avere le braccia snodabili. Come datazione si assegna il periodo tra il 1440 ed il 1460 e fanno parte dell’ex gruppo Ceriana

Il gruppo D
Questi Crocifissi risentono, ormai sul 1460 almeno,della sensibilità rinascimentale. Basti soffermarsi sul perizoma, drappeggiato con le pieghe che si dispongono a ventaglio sulle cosce, ma con minore spigolosità, e le ricadute a pieghe geometriche scalari; e poi anche sulle ciocche ondulate della barba e sulla struttura del viso, modellata con passaggi piu morbidi, che ricordano la produzione pittorica di Enguerrand Quarton ad Avignone. In questo contesto dobbiamo collocare, ad esempio, i due crocifissi processionali degli oratori di San Sebastiano di Dolceacqua e dell’Annunziata di Rocchetta Nervina.


Il gruppo E
Dopo il 1470 inizia a farsi spazio un nuovo modello di crocifisso, diverso dai 4 gruppi che abbiamo visto in precedenza. Ad accumunarli sono una gradevole armonia anatomica (con adeguato senso delle proporzioni, con le membra lunghe ed affusolate ed è appena turbata dalle vene in evidenza) i capelli sempre scolpiti; e un caratteristico perizoma, a lembi sovrapposti con la vita bassa, solcato da pieghe profonde e larghe e reso vivace da una lunga ricaduta sul fianco sinistro cui fa da contrappeso sul destro un nodo schiacciato a guisa di fagottino. Le differenze tra gli esemplari sono minime e riguardano piuttosto l’accentuazione di una muscolatura comunque molto misurata. Come e più che nei gruppi C e D, tra i crocifissi di questa famiglia, prevalgono modelli medi e grandi, per altari e processioni.
Troviamo esemplari a Isolabona, San Biagio della cima e nell’oratorio di Borghetto San Nicolò; oltre al San Giovanni a Oneglia, il crocifisso d’altare in San Tommaso a Dolcedo e i piccoli crocifissi delle parrocchiali di Piantasina e Borgo d’Oneglia; oratorio di Aurigo e parrocchiale di Chiusanico. Piuttosto ricco è anche il territorio di Albenga. Ci sarebbe da giurare sulla natura schiettamente ligure ponentina del fenomeno, se non fosse che negli ultimi tempi parecchi esemplari sono affiorati anche sul versante piemontese delle Alpi Marittime, come il crocifisso nella parrocchiale di Dronero. Il successo del modello E rende difficile quindi la localizzazione del laboratorio d’origine e vista l’ampia produzione è da escludersi che si trattasse di un solo artista; è invece piu plausibile l’ipotesi che vi fossero piu botteghe che collaboravano in tal senso, con un “tronco ligure” ed un “tronco piemontese”. 


Fra Quattrocento e Cinquecento si assiste a timide riprese dei Cristi filiformi, cui viene associato un perizoma corto a fascia con pieghe parallele, teso da un nodo sul fianco sinistro che puo offrire spunto per svolazzi  e ricadute piu o meno manierate (senza originalità). Inoltre le membra vengono levigate e favoriscono una sensibile flessione delle braccia, con torsione del corpo negli esemplari piu maturi del 1500. Ma queste caratteristiche non sono sufficienti per classificare una nuova famiglia. Indicano piuttosto un nuovo orientamento linguistico che differisce dalla famiglia E. Fra le versioni piu tradizionaliste del gruppo, troviamo il crocifisso di Porto Maurizio (Cristo dei Cantori) e quello della cattedrale di San Maurizio, oltre al crocifisso in Santa Marta a Ceriana. Siamo nel primo XVI secolo. Un crocifisso invece “fuori serie” è quello in Santa Maria degli Angeli a Sanremo, chiesa superstite di un convento di minori osservanti fondato nel 1468; dalla muscolatura armonica, si direbbe un tipico esemplare della famiglia E, ma i capelli articolati che cadono a ciocche formando quasi una calotta ed il perizoma a lembi sovrapposti, indicano che siamo in presenza di qualcosa di piu di una mera variazione sul tema. Ed è significativo che sia di origine piemontese, terra che continua ad offrire elementi di confronto con la produzione ligure.
Ne scaturisce l’immagine policentrica di una Liguria tardomedievale che specie nelle sue contrade occidentali dimostra di saper ascoltare tanto la pianura quanto le Alpi; e che dunque lo storico dovrà abituarsi a considerare come una sorta di patria culturale “che non disegni i confini di una identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore proprio dalla consapevolezza della pluralità storica dei suoi volti”.



Noemi D'Amore

Informazioni prese dal libro "La Sacra Selva, scultura lignea in Liguria tra XII e XVI secolo

domenica 24 marzo 2013

Imperia e la stazione contesa!


Sotto la guida quasi ininterrotta del Vice Governatore e poi Prefetto avv. Giuseppe Pirinoli, la appena nata Provincia di Porto Maurizio, nel 1865 fece i suoi primi passi dovendo affrontare subito non solo il problema della propria organizzazione, ma persino quello della sua stessa sopravvivenza, messa in giuoco, si diceva, da ragioni di economia. Grosso problema tecnico, altrettanto importante, affrontato sin dagli inizi, fu quello della ferrovia di cui si esaminavano in quel periodo i progetti già pronti, ma che tanti interessi divergenti stava per suscitare e provocare. Il problema della (o delle) stazioni ferroviarie per i due centri di Oneglia e Porto Maurizio è immediatamente all'attenzione delle due comunità. La logica del risparmio vorrebbe che, data la vicinanza tra i due centri, si creasse una stazione sola. Ciò servirebbe anche per cementare l'unione! Ma ecco come vede il problema "L'Italiano" (testata in foto del 20 Maggio 1862) di Porto Maurizio nel n. 12 del 7 Settembre 1861:

"Ci dicono i giornali che gli studi relativi alla ferrovia ligure, si trovano sotto gli occhi del Ministero... Fra le questioni che presenta riguardo la nostra Città, la ligure ferrovia, c'è quella, se correndo fra Porto Maurizio ed Oneglia appena un miglio di distanza, si farà un unico scalo che debba servire a tutte e due le città, o se ciascuna di esse avrà uno scalo. Ove si stabilisse uno scalo in ciascuna di loro, noi non abbiamo nulla da osservare. Ma se si trattasse per essere di un unico scalo, allora non c'è dubbio che la scelta dovrebbe cadere su Porto Maurizio, il quale conta maggior numero di abitanti, ed il cui commercio supera di gran lunga quello di Oneglia, come è già stato ampiamente dimostrato in documenti fatti di pubblica ragione; lasciando di osservare inoltre, che essendo Porto Maurizio Capo-Provincia, è più decoroso rispetto al Governo, che lo scalo si faccia in esso...
Il luogo appropriato ove fare lo scalo, sembrerebbero le pianure vicine o attigue alla Fondura, o se pure si volesse fare in un luogo che fosse più comodo per Oneglia, in maniera che non disterebbe da essa, più che da parecchie strade di Porto Maurizio, si potrebbe fare presso il molo di levante del Porto di Maurizio; ove si volesse fermare in un luogo alquanto più vicino a Oneglia, sarebbe per quanto a noi sembri necessario collocarlo, sino verso la fiumara Impero cioè quasi dentro Oneglia, e discosto un miglio circa da Porto Maurizio; il che sarebbe appunto fare il rovescio, di quanto la natura delle cose richiede che si faccia....
Ma udiamo che il nostro Consiglio comunale, si è rivolto al governo, onde chiedergli che lo scalo sia fatto presso Porto Maurizio, od almeno in luogo intermedio fra Porto Maurizio e Oneglia...
D'altronde ripetiamo di non conoscere luogo intermedio fra Porto Maurizio ed Oneglia, dove si possa fermare quello scalo..."

Tratto da "Cronache di Portoneglia" di Enrico Berio


A giudicare dalla presenza, oggi, sia della stazione di Porto Maurizio che e di quella di Oneglia, mi sa che l'accordo per una stazione comune non arrivò mai! 

Noemi D'Amore




Se vuoi  raccontarci la tua storia, scrivi a: noemi.damore@gmail.com

venerdì 22 marzo 2013

Cervo, uno dei Borghi più Belli d'Italia


In occasione della giornata FAI di Primavera dove saranno visibili luoghi solitamente non accessibili, vi racconto il borgo di Cervo, protagonista il 23 e 24 Marzo di innumerevoli visite organizzate proprio dalla FAI!

Panoramica
Se il nome può far pensare all'animale sacro a Diana, la dizione "il Servo" e anche "il Servio" usata nei documenti ne rivela le origini medioevali. Il Borgo è ubicato nella Valle Steria, la più orientale della Provincia di Imperia, circoscritta dal Torrente Merula e dalla valle dell’Evigno, oltre ovviamente al Mar Ligure. Cervo è ancora oggi un borgo fortificato sul mare e le sue origini risalgono alla conquista romana (181 a.C.) come “mansio” della via Julia Augusta. Tracce di un insediamento preistorico sono state trovate sull’altura che sovrasta il paese; altre, d’età tardoromana, sono emerse sul promontorio dove fu edificata l’attuale chiesa di San Nicola, anticamente dedicata a San Giorgio, particolare che fece ipotizzare l’esistenza di un insediamento in età Bizantina (VI-VII secolo).  Al suo vertice troviamo il millenario castello dei Clavesana e le tracce del primo nucleo abitativo, probabilmente ad esso addossato. Il potere feudale si dissolse nei primi secoli del tardo-medioevo, contemporaneamente allo sviluppo economico e demografico. Nel 1222 i Dianesi attaccarono il castello di Cervo, ma furono prontamente respinti grazie all’intervento delle forze armate di Genova, che li condannò ad una multa di ottocento libbre per aver attaccato il castello dei Clavesana. Nel 1625 il castello venne invece espugnato e saccheggiato dalle truppe piemontesi savoiarde.
Cervo, da anni certificato tra “I Borghi più Belli d’Italia”, ha conservato intatte le sue originalissime caratteristiche di borgo medievale sul mare, protetto da torri e mura cinquecentesche e circondato da verdi colline; in paese - cui si accede attraverso le originarie porte medievali - si circola solo a piedi, in un’oasi di silenzio e serenità, tra palazzotti padronali settecenteschi e vicoli su cui aprono i battenti laboratori artigianali di ceramica, vetro, legno, cuoio, oro e porcellana. I monumenti più rilevanti sono l'antica e prima parrocchiale Chiesa di San Nicola - San Giorgio, la barocca Chiesa di San Giovanni Battista o dei Corallini, il romanico Oratorio di Santa Caterina con affreschi del sec. XVI, il medievale Castello Clavesana che ospita il suggestivo Museo Etnografico del Ponente Ligure ed il Palazzo Viale.  Nei secoli XVI, XVII e XVIII i cervesi, oltre che l’olivicoltura e la marineria, hanno intensamente praticato la pesca del corallo nei mari di Corsica e Sardegna. A questo proposito si narra di un terribile fortunale che investì le barche di 150 uomini di  Cervo che tornavano da una spedizione di pesca: le barche affondarono con i loro equipaggi; tanti furono i morti e tanti furono i lutti che per lungo tempo Cervo ebbe il triste appellativo di "Città delle vedove".  
Per quanto concerne le manifestazioni, Cervo è nota per il Festival Internazionale di Musica da Camera che si svolge ormai da più di quarant’anni e dove i maggiori artisti d’Europa offrono concerti al chiaro di luna, da vivere in rapito silenzio. Il Festival e le rinomate Accademie musicali, hanno valso a Cervo il titolo di “Borgo della Musica”. Alle spalle del borgo le colline sono coperte da un fitto manto di ulivi che sorgono su terrazze (le “fasce”) costruite in secoli di durissima fatica; più a monte verdeggia la macchia mediterranea rimasta al suo stato naturale, ricca di flora spontanea anche rara (orchidee) e frequentata da un fauna quanto mai varia. Campagne e boschetti sono attraversati da una rete di sentieri, segnalati e tracciati, che portano sia al Parco Comunale Ciapà sia in vetta alle colline con vista panoramica

Torri e mura 
L'epopea della difesa dalle incursioni saracene, che terrorizzarono il Ponente ligure dal Mille fino a dopo il Cinquecento, è ben testimoniata dalle intatte cerchia di mura che cingono il borgo e si sono allargate nei secoli con la crescita del centro abitato.  Lungo le mura, e presso le porte di accesso all'abitato, sorgono torrioni a pianta circolare; altre due torri tronco-coniche di avvistamento delle feluche dei "Turchi" sorgono sul litorale.






Le porte
L'accesso al borgo era possibile solo attraverso le porte tutt'ora attive, rispettivamente "Santa Caterina" a nord-est, "Canarda" a sud-est e "Marina a sud-ovest, nonchè dal "Varco Bondai" (aperto in epoca successiva per comodità della popolazione).  Porta "Marina", seguendo l'evoluzione delle mura dal secolo X al XVIII, ha avuto ben quattro posizioni diverse e, infine, è stata addirittura sdoppiata in Porta Marina e Porta San Nicola.

Il Castello
Fu costruito attorno al XIII secolo inglobando una antecedente torre romanica. Residenza fortificata dei marchesi di Clavesana, signori del borgo, servì anche a difendere la popolazione dagli assalti dei saraceni. L'edificio, in pietra a pianta rettangolare con 4 torrioni agli spigoli, fu poi trasformato in oratorio dedicato a santa Caterina d'Alessandria, e ancora convertito in ospedale.
Oggi le sale al primo piano sono sede del Museo Etnografico del Ponente Ligure e dell'ufficio di Informazioni Turistiche. La sala al secondo piano è invece sede di mostre d'arte che si avvicendano durante il periodo estivo.
Il Museo etnografico presenta un vivace spaccato di vita ottocentesca relativa alla casa, all'artigianato, all'agricoltura e alla marineria, con attrezzi 'animati' da manichini a grandezza naturale e costumi dell'epoca. E' la più preziosa e completa testimonianza del genere in tutta la Liguria di ponente! 


Chiesa di San Giovanni
Costruita a cavallo tra i secoli XVII e XVIII, è il maggior monumento barocco del Ponente Ligure e domina un ampio braccio di mare con un suggestivo effetto scenografico. E' la parrocchiale dedicata a San Giovanni il Battista, ma è meglio conosciuta come "dei Corallini" perché eretta anche grazie ai proventi della pesca del corallo che i cervesi praticarono per secoli nei mari di Corsica e Sardegna.
Il progetto in stile barocco, con notevoli pittoresche invenzioni, fu dell'architetto Gio Batta Marvaldi di Candeasco (piccolo paese dell'alta Valle Impero) cui morte nel 1706, successe il figlio Giacomo Filippo. L'elegante campanile, costruito alla fine della metà del XVIII secolo, fu invece realizzato su disegno del pittore Francesco Carrega di Porto Maurizio. La chiesa, a grande e unica navata, conserva al suo interno significative opere d'arte fra cui spiccano: il pulpito in marmo bianco del 1500; sull'altare laterale di sinistra il Crocefisso ligneo del Maragliano; il tabernacolo degli olii santi in marmo del '400; il fonte battesimale in marmo e ferro battuto risalente '600.

Oratorio di Santa Caterina
Eretto nel secolo XIII quale chiesa parrocchiale del borgo, la costruzione molto severa è in pietra da taglio, a navata unica, con una cappella laterale; al suo interno conserva numerosi anonimi affreschi cinquecenteschi.  Sopra l'ingresso, domina dall'alto un grande affresco di San Giorgio che uccide il drago e la maestosità dell'opera contribuisce a rendere in tutto il suo severo splendore questa chiesa romanica, oggi sconsacrata e utilizzata come sala per mostre e concerti.

Palazzo Viale 
Era la residenza di una delle famiglie più importanti di Cervo, arricchitasi grazie alle rendite terriere ed ai traffici marittimi. Costruito nel XVIII secolo ai limiti del quartiere detto “il Borgo” sul ciglio di quella che diverrà la Strada Corriera “Roma-Parigi” di progetto napoleonico, presenta prospetti definiti da cornicioni marcapiano, con aggraziate cornici in stucco alle finestre e motivi decorativi dipinti; il vano di una finestra cieca al secondo piano sul lato di ponente era affrescato con la figura di una dama e di un cavaliere, dissoltasi nei recenti anni ‘70. Anche alcune persiane sono originali del pieno Settecento.
L’ingresso ha un bel portale in marmo bianco; l’atrio e la scala sono di classica tipologia signorile genovese, con i portoncini dalla cornice modanata affacciati sui pianerottoli. L’edificio ha due piani nobili; ai tempi del suo massimo fulgore era diviso fra quattro fratelli: Gio Batta (sacerdote, 1726-1799), Giuseppe (capitano, 1730-1808), Anton Domenico (1734-1794) e Saverio (mercante, 1741-1811). Il secondo piano nobile, oggi proprietà del Comune che vi realizza iniziative culturali, è uno dei più interessanti appartamenti d’epoca conservatisi nella Riviera di Ponente, arricchito da affreschi di Francesco Carrega.
Il piccolo ingresso immette nel salone la cui volta è dipinta col motivo di Giunone, ed una serie di Virtù; temi religiosi decorano una stanza laterale, mentre nell’anti-sala, dedicata ai ritratti di famiglia, è rappresentata la caduta del carro di Fetonte.
Nella stanza meno ben conservata è raffigurato un episodio della vicenda di Tancredi e Clorinda tratto dalla “Gerusalemme Liberata”.

L’appartamento si conclude con la sala dell’alcova, dotata di una cappella “ad armadio” da cui officiar Messa ad eventuali malati; la camera è affrescata con decorazioni naturalistiche e con le personificazioni del Crepuscolo e dell’Aurora veglianti dalla morbida arcata che introduceva al talamo coniugale.







Per maggiori informazioni: www.cervo.com
Per i dettagli delle visite organizzate da FAI il 23 e 24 Marzo: www.giornatafai.it

Per altre info: noemi.damore@gmailcom







mercoledì 20 marzo 2013

Sulle tracce delle streghe


Tutto ebbe inizio nel 1586, quando una grave carestia colpì Triora e costrinse alla fame gli abitanti. La presenza di un fungo nei cereali, causò episodi di convulsioni e allucinazioni che portarono molti a chiamare in causa le streghe. Queste donne erano accusate di aver avuto rapporti col demonio, di aver giocato a palla con dei neonati, di essersi trasformate in uccelli e altre amenità del genere, per cui il consiglio degli Anziani, un organismo che rappresentava le famiglie più altolocate e benestanti di Triora, il 20 Gennaio 1587 chiese ufficialmente alle autorità di intervenire per estirpare e sradicare il male da questo paese. Un mese dopo 30 donne furono incarcerate e 18 accusate di stregoneria. Gli interrogatori, di cui esistono le trascrizioni, iniziavano con la sospensione per i polsi seguita dal fuoco ai piedi, continuando col suplizio del cavalletto che stirava progressivamente gambe e braccia fino a disarticolarle. Durante il processo a Triora si registrò la morte per dissanguamento dell’anziana Isotta Stella gettatasi dal balcone dopo ore di torture. Mentre l’imputata Franchetta Borelli venne impalata con dei pesi alle caviglie e ai polsi che spingevano il corpo verso il basso. Nonostante questa terribile tortura, ella sorrideva ed ai suoi interrogatori, guardando il vento fuori dalla finestra, disse “Questo vento non farà venire buone castagne quest’anno”. Il suo atteggiamento spinse ancor più gli inquisitori a ritenerla posseduta dal demonio! 
Tutto questo ebbe termine solo l’anno successivo, quando gli interrogatori iniziarono a coinvolgere anche le mogli di notabili locali, per cui gli Anziani chiesero a Genova di non tenere conto delle accuse rivolte ad esse. Alla fine nove donne trovarono la morte a Triora e nelle carceri di Badalucco, altre cinque morirono in prigione a Genova e di altre tredici, più uno stregone, non si seppe nulla. 
Chi riuscì a tornare a Triora finì i suoi giorni in pazzia e totale emarginazione.

Ma cosa ci resta oggi di quegli anni persecutori? Esistono delle tracce di una reale presenza demoniaca nel paese di Triora?

Analizzando il nome stesso del paese, si ottiene tria-ora ossia le tre bocche di cerbero, il temibile cane a tre teste guardiano dell’inferno. Inoltre, un prevosto dello stesso secolo, trascrisse sui suoi diari che Triora non era un luogo dove avvenne il male, bensì era proprio il luogo del male. La stessa morfologia del paese, la sua posizione e l’ambiente intorno, porterebbero a raffigurare Triora come posto ideale per ipotetici incontri con Satana. Ad esempio il vicino Lagodégnu, nelle storie locali, rappresenterebbe il luogo prediletto dalle bagiue (streghe) grazie alla presenza dell’acqua, crocevia di energie invisibili e dal sicuro impatto suggestivo, oltre che elemento necessario alla vita dell’individuo e quindi luogo dove le prime comunità sorgevano insieme ai loro culti, prima pagani poi cristiani. I precipizi e gli orridi vicini a Lagodégnu, come il Cian der prève, sono consoni al cosiddetto volo delle streghe. Il vuoto, elemento terrorizzante, diventa una sorta di barriera che solo la strega è in grado di superare! Esistono dunque delle caratteriste morfologiche ben delineate nei luoghi scelti da queste donne, che non si ritrovano solo a Triora ma anche in altre località della Liguria, contrassegnate da un riferimento all’inferno, al diavolo o agli animali demonologici nel loro nome o nel nome delle loro piazze. 
Cosi fenditure profonde, grotte, ponti, prati, nonostante la loro bellezza paesaggistica, vengono indicati con nomi cupi e tenebrosi.
Tornando al paese di Triora, si narra che nei primi anni del secolo scorso furono avvisati dei fulmini globulari nella zona di Perallo e a risalire la valle sino al paese. Sui fulmini globulari esistono diverse teorie: attualmente, la più accreditata è quella formulata da Graham Hubler secondo cui il fulmine globulare è una combinazione di fenomeni elettromagnetici e chimici. In pratica, quando un fulmine colpisce il terreno disintegrerebbe alcuni elementi chimici, come il silicio, e questi, volteggiando nell'aria, si miscelerebbero con l'ossigeno; poi, complice l’elevata temperatura, essi produrrebbero del plasma incandescente, ovvero il fulmine globulare.
Altro punto forza che gioca a favore di una teoria concreta sul perché proprio a Triora le donne furono accusate di stregoneria, è la presenza di un lavatoio le cui acque hanno proprietà terapeutiche, depurative e pure diuretiche. Secondo la leggenda, tali caratteristiche furono conferite alle acque dalle stesse streghe pentite per i loro malefici.
Rimane poi la Cabotina, un tempo la zona più povera di Triora, rimasta famosa come ritrovo notturno delle fattucchiere trioresi. Quel che è certo, è che in questo luogo vivevano persone al limite della sopravvivenza, certamente emarginate dalla società e dalla vita pubblica. E’ plausibile pensare che qui vivessero donne sole, prostitute, contadine tra le prime ad essere coinvolte nel processo del 1587. Anche se non vi è la presenza di sorgenti o altre fonti d’acqua, la Cabotina si caratterizza per la conformazione estremamente scoscesa. La tradizione vuole che proprio lungo queste pareti quasi verticali, le streghe prendessero il volo.

In conclusione, cosa possiamo dire? Esisteva davvero una presenza del male nella Valle Argentina? Queste donne scelsero volutamente Triora per i loro riti con Satana? O gli elementi chiave che collegano Triora ad altri paesi accusati di stregoneria, sono una semplice coincidenza?
Ognuno è libero di dare una risposta personale a queste domande in base alla sua esperienza e conoscenza. Ma quel che è certo è che dopo le torture del 1587, molte donne di Triora scomparvero e contestualmente, sui registri di un paesino nei pressi di Genova, S. Martino di Struppa, comparirono nomi di famiglia legati al termine bagiua, ossia strega nel dialetto locale di Triora. Un’altra coincidenza, o queste donne cercarono un nuovo luogo dove praticare i loro riti demoniaci?   


Noemi D'Amore
Per visite guidate: noemi.damore@gmail.com

Per maggiori info:

martedì 19 marzo 2013

Vita da Conti e Contesse

Vedendo un castello, le persone sono portate a pensare che la vita in quel luogo dovesse essere fantastica! Ricchi banchetti, dame dagli abiti eleganti e pregiati, tendoni in velluto ricamati d'oro! Insomma, un luogo dove monete d'argento,vizzi e peccati erano i veri protagonisti. La realtà però, come spesso accade, era ben diversa da questo lussurioso immaginario.. Nei momenti, assai rari, in cui i Conti e i nobili Signori non erano impegnati in sanguinose lotte territoriali, trascorrevano la loro vita in dimore che oggi, più che castelli, definiremmo "baracche sotto un ponte"; anche se, a Dolceacqua, forse sarebbe meglio dire "baracca sopra il ponte"! Sino al Quattrocento, infatti, la vita dei signori Doria non era particolarmente confortevole: le finestre non avevano vetri ed erano chiuse da semplici stoffe. E se siete mai stati a passeggiare per le vie del borgo in pieno inverno, potrete ben immaginare l'arietta fresca che doveva esserci in casa Doria! E se l'idea del letto a baldacchino vi è sempre sembrata ricca d'atmosfera, dovete sapere che in realtà veniva utilizzata questa struttura per isolare dall'umidità e dalla caduta di insetti dal soffitto.. I servizi igenici non esistevano e l'acqua, rigorosamente fredda, proveniva da una cisterna esterna! Il mobilio? Ridotto all'essenziale: una cassapanca e qualche sgabello. Dimenticate anche i grandi buffet! I cibi erano semplici e poco variati! E se queste erano le condizioni dei signori più ricchi della vallata, vi lascio immaginare come potessero vivere gli abitanti del villaggio.
Per fortuna (dei nobili, ma non del resto degli abitanti) nel Quattrocento, grazie ai grandi cambiamenti dovuti al Rinascimento, il concetto di "castello" prese un nuovo significato. Enrichetto Doria nel 1442 ordinò i primi ingradimenti della struttura, seguiti da quelli voluti da Stefano Doria nel 1565. I locali divennero sede di una piccola corte rinascimentale, con pareti ricche di affreschi (del Cambiaso, noto pittore della Val Nervia e non solo) e ben arredati. 
La qualità della vita migliorò progressivamente, come dimostra un documento del 1717, il quale indica che il castello comprendeva il salone del Principe per i ricevimenti pubblici, oltre due sale, un salotto, cinque camere da letto e due studioli con biblioteca, il guardaroba, la cappella privata, diversi locali per i servizi (il cibo non era ancora ben conservato e poteva dare problemi allo stomaco..) e le cucine, i magazzini del vino, del grano e dell'olio. Facevano parte degli arredi numerosi dipinti con paesaggi e ritratti, statue, specchi, stoffe e oggetti pregiati. Ed è solo in questo contesto, che possiamo tornare con l'immaginario ai ricchi banchetti di paste, carni, ricotta, uova, verdure e frutta, accompagnati da vino rosso "rocense" e bianco moscatello!

Noemi D'Amore
Vuoi passare una giornata diversa, alla scoperta dei segreti della Riviera dei Fiori?
Scrivimi! noemi.damore@gmail.com

lunedì 18 marzo 2013

Montegrazie: quando visitare un Santuario è come leggere un "fumetto"!

Se vi trovate a passare nella valle di Caramagna, sulle alture di Porto Maurizio, non potete non proseguire ancora 1km per raggiungere Montegrazie, un paesello le cui case presentano la tipica architettura ligure. Su un piccolo promontorio, circodato dai verdi uliveti e sporto come una finestra sul mare, si erge il Santuario di Nostra Signora delle Grazie.

Le origini risalgono ad una leggenda che il popolo ancora oggi ricorda.
Nel XIII secolo, in una famigliola rurale di Moltedo, poco distante da Montegrazie, viveva una povera ragazza sordomuta sino dalla nascita, che custodiva le pecore.
Un bel mattino d'autunno la pastorella, che aveva circa quindici anni, si fermò nel punto detto la "Chiappa" cioé proprio nel valico della collina che allora era una vasta pineta la quale copriva tutto il fianco occidentale del Battaiosa.
La tradizione narra che in quell'ora mattutina, la piccola sordomuta ebbe una celestiale visione: "la bruna Signora riccamente vestita con un vezzoso bimbo in braccio, fra un'aureola di argento e di luce", la quale le disse: "Va da tuo padre e digli che qui faccia edificare una chiesa in onore della Beata Vergine e sappi che io sono proprio Essa, la Madonna, che te lo ordina". La fanciulla corse dal padre e raccontò con vivissima commozione l'avvenimento! La notizia della guarigione della ragazza si propaga per le valli, tutti accorrono alla casa della pastorella, tutti desiderano sentire il racconto dell'avvenimento, e tra la commozione generale, la pietra ove la Madonna posò il piede viene coperta di fiori e di baci. Così in breve il Santuario fu edificato.

Il Santuario venne edificato nel 1450, come riportato da una iscrizione sull'architrave dell'ingresso, accanto ad una preesistente torre con cisterna, probabilmente utilizzata per l’avvistamento delle incursioni saracene. Proprio grazie a questo antico campanile, oggi il Santuario è uno splendido esempio di edificio tardogotico con reminescenze romaniche, in pietra lavorata con estrema precisione. Questo non è certo un caso isolato se si pensa che la Liguria di Ponente è stata una meta significativa per gli antelami, artigiani specializzati nella lavorazione della pietra, che trovarono qui in Riviera un luogo ideale dove mettere in pratica la loro arte, grazie soprattutto alla materia prima ampiamente presente!
L'interno è a tre navate, separate da due ordini di quattro colonne che sorreggono archi a sesto acuto. Ma quello che piu lascia senza fiato, non è tanto la struttura, quanto il contenuto pittorico del Santuario. La prima opera a meritare di essere menzionata, è senz'altro il polittico di Carlo Braccesco del 1478, composto da 19 scomparti su fondo oro, unica opera firmata dall'evoluto pittore lombardo, raffigurante nel pannello centrale la Madonna in trono col Bambino. Inoltre, il Santuario è custode del più completo ciclo di affreschi della seconda metà del Quattrocento e dell'inizio del XVI secolo dell'intero Ponente ligure, realizzato da quattro artisti. I fratelli Tommaso e Matteo Biasacci da Busca nel 1483 affrescarono la parete di sinistra con scene della "Vita delle anime nell'oltretomba", con significativi riquadri dei castighi infernali, della cavalcata dei vizi e delle virtù e della buona e della cattiva sorte, sovrastati dalla Città celeste; dipinsero inoltre l'abside di sinistra con scene della "Vita del Battista". Lo stile è popolaresco, di tipica matrice piemontese, con felici soluzioni cromatiche! L'abside laterale destra è stata affrescata nel 1498 da Gabriele della Cella di Finale con scene della "Vita di san Giacomo di Compostella". La parete destra, infine, accoglie frammenti di dipinti parietali realistici e quasi ingenui della "Passione di Gesù" di Pietro Guido da Ranzo, d'inizio Cinquecento.

Entrando in questo Santuario, si viene catapultati in un'altra dimensione, dove l'arte non è rappresentata da enormi quadri o statue religiose, bensì diventa parte integrante della struttura stessa! E' come essere di fronte ad un immenso libro aperto, dove le pareti prendono la leggerezza di pagine colorate, travolgendo al contempo l'animo di chi le osserva con la loro forza simbolica!



Noemi D'Amore

Si ringrazia il sito www.santuariomontegrazie.org per il materiale fotografico.

venerdì 15 marzo 2013

Il Santuario della Madonna della Rovere



La struttura

E’ il più antico e rinomato santuario della Liguria, grazie alle guarigioni miracolose ed al flusso di pellegrini. Rientra nella diocesi di Albenga, e si trova tra Capo Cervo e Capo Berta, poco distante dalla via Aurelia. L’antico e vasto territorio era denominato Lucus Bormani ai tempi dei romani e le 5 piante della rovere che si trovano intorno al santuario, sono gli ultimi esemplari di quell’antico bosco. Il Santuario fu costruito a più riprese. Nel 1400 era ad unica navata con campanile a sinistra e finestra ad occhio sulla facciata; questa è riprodotta, orientata  a est anziché a nord, nel dipinto fiammingo conservato nel santuario. Nel 1550 la chiesa subì un rifacimento complesso e divenne a 3 navate. Nel  1809 con Napoleone fu ribassato il sacrato di 1 metro per evitare all’acqua piovana di entrare e venne realizzata la pavimentazione a ciottolato. Nel 1860 la facciata venne proposta in stile neoclassico. Il campanile appare quadrato e massiccio, la cupola a cipolla. La facciata è opera di Ardissone nel 1860. Oggi le navate sono  separate da pilastri ottagonali e quadrati. I pilastri quadrati sono residui della vecchia chiesa orientata a nord. 

L’altare della madonna, navata sinistra, ha marmi policromi ed è dove si trova la madonna miracolosa della Rovere. La figura del bambinello nudo simboleggia la sua umanità, le tre dita alzate la trinità, le due dita ripiegate la natura divina e umana. L’abito d’oro la regalità, mentre il velo azzurro simboleggia il cielo. Scultura semplice priva di pregi, ma magica di spiritualità.
Nella cappella di sinistra un dipinto fiammingo rappresenta la madonna con un grappolo d’uva (il vino raffigura il sangue di cristo); la facciata del quadro è la stessa dell’attuale facciata centrale. Anche un tratto dell’antica via Aurelia è presente nel dipinto. Particolari che assicurano che già dal 1450 la chiesa era meta di pellegrinaggio, da Roma a Santiago, e viceversa. E’ presente anche il crocifisso catalano, legato a un gruppo di pellegrini francesi che dopo la notte trovarono il crocifisso piantato in terra, e sentirono  il Cristo dire che dove è la madre può stare anche il figlio. Nell’abside troviamo 3 pannelli a tempera: arcangelo Gabriele, la Vergine Annunziata e san Giovanni Evangelista, in origine uniti. Mentre i fratelli Gaggini realizzarono l’altare maggiore in marmo di Carrara, restaurato da Salvatore Urazza nel 2010.  Gli affreschi della volta rappresentano l’apparizione ed il miracolo della rovere.

Il Miracolo

“Il Sig. Giacinto la notte del 3 aprile del 1671, all’età di 50anni, dopo il lavoro di campagna, chiamò la moglie perché colpito all’improvviso da un’ischemia che gli rese il braccio sx morto e insensibile. Qualche giorno dopo, Il 18, avvenne l’apparizione. Ad Andora gli capitò  poco prima delle 12 di vedere una donna vestita di turchino che gli disse di raccomandarsi alla madonna della rovere  e di recarcisi senza aspettare. La Signora gli fece notare che doveva farlo quanto prima. Così il giorno dopo Giacinto si diresse  al santuario, e durante la santa comunione gli si offuscarono gli occhi e cadde a terra svenuto. Appena si riprese, allungò le braccia con disinvoltura, era guarito!”. 

Gli atti sono nell’archivio della diocesi di Albenga. Nel 1671 vi furono 9 miracoli tutti documentati, come Angelica Viale, che con una paralisi del braccio, della  coscia e della gamba, si recò  su un asinello al santuario e guarì! Oppure Caterina, di 15anni, che da storpia cadde e si svegliò guarita! Vi fu inoltre la guarigione di Carlo Francesco Viale, affetto da ernia carnosa, che dopo vari pellegrinaggi vide l’ernia scomparire. La devozione alla vergine così aumentò

Noemi D'Amore
Per le foto si ringrazia www.santuariodellarovere.it
Per info e visite: noemi.damore@gmail.com